Esistono dinamiche, nel mondo del food, che si muovono lente come fiumi carsici. Talvolta a dare un colpo di acceleratore sono tendenze globali – pensiamo alla crescente attenzione al mangiare sano che ha portato a inserire criteri come salubrità e genuinità nella checklist degli chef – ma in altri casi è l’evoluzione delle tecnologie. Non solo nel fine dining, ma anche nel campo della cucina informale e di quell’universo compreso tra due fette di pane che è l’hamburger, l’occhio è venuto a reclamare la sua parte convincendo i gestori di locali notturni a realizzare piatti, oltre che buoni e sani, anche gradevoli alla vista. Un concetto che oggi, complice l’avanzare della complessità dei device e il boom mediatico della filiera gastronomica, ha trovato declinazione nei “piatti instagrammabili”, ma che a ben vedere nasce molto prima dell’avvento degli smartphone. Da diversi decenni a questa parte, infatti, la consapevolezza di dover prestare attenzione agli impiattamenti ha fatto sì che anche la cucina “giovane” e informale ricalcasse più o meno volontariamente le mode e il costume generale, incarnando così lo spirito del tempo: concediamoci un piccolo esperimento e torniamo con la mente agli anni Ottanta, periodo che in Italia ha visto svilupparsi il nascente fenomeno delle hamburgerie, formula che invece dall’altra parte dell’Atlantico era già consuetudine da qualche decennio. Pur prestando il fianco a una necessaria semplificazione, difficile non notare analogie con il comparto dell’abbigliamento nell’uso comune di colori sgargianti e accostamenti di ingredienti all’epoca giudicati innovativi ma che il tempo avrebbe poi relegato nel dimenticatoio, se non addirittura condannato a una damnatio memoriae.
Prendiamo proprio il caso del burger: ciò che dal setaccio del tempo è rimasto come un valore, al netto del susseguirsi delle mode, è l’attenzione alla qualità e alla disposizione degli elementi, strato dopo strato, come fattore in grado di determinare il successo del panino. Su questo fronte, il Red Garted di via de’ Benci si erge sia come testimone dello scorrere del tempo e specchio delle evoluzioni del gusto, sia come termometro delle tendenze della Generazione X, nostrana o internazionale.
“Rispetto a un passato non troppo lontano – racconta Riccardo Tarantoli, patròn del locale che da sessant’anni anima la strada principale della movida fiorentina – negli ultimi anni si mangia meno ma si presta più attenzione alla qualità. Il cibo è sempre più visto come condivisione e convivialità, e non un mero riempirsi lo stomaco. Al di là di queste macrotendenze, però, il ritorno prepotente dell’agrodolce nei piatti testimonia che oggi si mangia generalmente meno salato. E non certo per motivi salutistici, come si potrebbe pensare, quanto per un cambio diffuso di percezione del gusto comune più o meno a tutte le declinazioni della cucina contemporanea”. Da qui la scelta di continuare a servire i ribs, un evergreen del locale, tenendo le costolette di maiale in infusione per 48 ore in una salsa agrodolce. Da sottolineare è poi la rinnovata attenzione al pollo, una carne che ha a lungo sofferto di un immotivato complesso d’inferiorità: se il manzo continua a farla da padrone – tanto in generale in una città vocata alla bistecca come Firenze, quanto nel caso specifico di un locale notturno che durante il lockdown ha fatto segnare volumi di vendite da record sul fronte del delivery e del take away – la richiesta di pollo è esplosa sia nei burger che nel fritto da gustare al tavolo. Il tema della condivisione è invece testimoniato dal successo del tailgate, piatto pensato per le tavolate ampie, mentre un’autentica novità sono le tre varianti del breakfast internazionale che oscillano tra bacon, uova strapazzate, pancakes e gli immancabili hashbrown. Tuttavia lo scorrere del tempo e l’evoluzione del gusto non hanno portato solo nuove aggiunte, nel menù del Red Garter: ad esempio sono scomparsi i primi piatti, mentre restano inamovibili le pietanze che hanno contribuito a rendere il locale di via de’ Benci un’istituzione. E’ il caso delle ali di pollo – anch’esse molto più difficili da reperire a Firenze fino a vent’anni fa, a testimonianza di come il palato subisca mutamenti significativi – ma anche dei tacos con pulled pork, dove le suggestioni latine si mescolano a un taglio di foggia statunitense.
Sessant’anni fa come oggi, però, il re della tavola del Red Garter resta il burger. Non uno qualsiasi, ma quello tradizionale americano, che ha delle sottili differenze rispetto alle versioni che abbiamo introdotto in Italia: sull’altra sponda dell’Atlantico si predilige la ricetta canonica (un polpettone di carne, possibilmente angus, condito con lattuga, pomodoro, formaggio cheddar, cetriolini, cipolle e bacon) mentre nel Vecchio Continente sono più apprezzate varianti con carni locali – siamo pur sempre nella patria della Chianina – e meno salse come condimento, compensate da più aggiunte territoriali (patè di funghi, lardo, tartufi, parmigiano, ecc…). Anche sul fronte del pane, il morbido “bun” statunitense è talvolta diverso dal panino usato in Italia, dove la biodiversità consente di sfruttare farine diverse. E cosa dire della carne, elemento che risente non solo della differenza tra le razze bovine utilizzate ma anche della percentuale di grasso che viene aggiunta al macinato per ottenere una polpetta più o meno succulenta? Anche in questo caso, Riccardo Tarantoli dà una fotografia aggiornata dei gusti del popolo della notte: “Gli americani che vengono al Red Garter chiedono generalmente un burger più secco, lo preferiscono ben cotto anziché al sangue. Però nella classifica dei nostri panini più apprezzati non sfigura affatto il ‘Magnifico’ con le cipolle marinate nel Jack Daniels, e ingredienti nostrani come la crema di mascarpone e gorgonzola. E’ la nostra specialita più venduta dopo il Rodeo Burger (con la cipolla fritta) e il classico NY Bacon Cheeseburger”. Rispetto a un menù di una decina d’anni fa, inoltre, oggi è molto più comune trovare opzioni vegetariane, in cui la polpetta di carne viene sostituita da un mix di verdure e legumi.
Insomma, in appena un giro di valzer di calendario, il passaggio dagli anni Dieci agli anni Venti ha visto cambiamenti molto più importanti di quelli che in passato hanno richiesto tempi più lunghi. Merito degli smartphone, come detto, ma anche di una coscienza popolare più attenta alla qualità e alla salute. Ma nulla si è perso sul fronte del piacere della convivialità, paradossalmente ancor più rafforzata da un biennio di restrizioni e lockdown. Non solo a tavola, ma anche in un altro “spazio di socialità” che ha reso il Red Garter un unicum nel panorama fiorentino come il karaoke. “Non è affatto andato fuori moda – conferma Riccardo Tarantoli – ma il suo successo continua a dipendere da come viene gestito, dal modo in cui si riesce a far abbattere le barriere a chi sceglie di cimentarsi e mettersi in gioco”.
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